L’impresa umanistica

Ho letto con grande interesse l’intervista concessa da Brunello Cucinelli a La Stampa (ho trascritto di seguito i passi più significativi). La sua azienda produce maglieria in cashmere ed è stata l’unica nuova società a quotarsi nel 2012 alla Borsa di Milano.
Qualche giorno fa l’imprenditore ha distribuito di tasca sua 6mila euro ad ognuno dei sui 783 dipendenti come premio di produzione. Un gesto notevole, considerando anche i tempi che corrono.
La sua sembra un’impresa fondata sui valori e sulla centralità delle persone che vi lavorano. Suona fortemente anacronistico in un momento storico in cui le tante aziende in difficoltà vedono nel taglio delle spese del personale la misura principale per arginare la crisi.

Dalle considerazioni dell’imprenditore e dal suo modello di business vedo applicabile in altri ambiti:

  1. porsi dal lato della produzione di valore: lasciare ad altri la competizione sul “prezzo” e lavorare su qualità e innovazione che unite alla distintività del prodotto consentono di avere i margini per crescere e continuare a investire;
  2. valorizzare i dipendenti e trasmettere una forte identità all’azienda: remunerare le risorse umane anche in misura superiore al mercato se effettivamente lo meritano, favorendo così un forte spirito di appartenenza;
  3. gestire con onestà e trasparenza

La domanda che nasce spontanea dopo aver letto questo caso esemplare è: può un contesto lavorativo opportunamente “curato” nell’ambiente, nei rapporti interpersonali, nella valorizzazione del contributo dei dipendenti trasformare in positivo le persone che vi lavorano e spingere tutti, i bravi e meno bravi, a dare il massimo per raggiungere gli obiettivi di fatturato e profitto?

La risposta è probabilmente positiva. La figura di Cucinelli non è nuova sul panorama italiano. Più di mezzo secolo fa Adriano Olivetti ha dimostrato con i fatti come si potesse armonizzare la crescita industriale con una gestione dei lavoratori attenta ai diritti umani traendone benefici concreti in termini di impegno e produttività.
L’altro aspetto importante che accomuna i due imprenditori e che si aggiunge ai tre citati prima è il dare l’esempio. Che non è il semplice dimostrare di essere sensibili a tematiche sociali finanziando enti benefici ma impegnarsi in prima persona in iniziative e progetti a favore dei dipendenti e della qualità del loro lavoro e della loro vita in generale.

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Dignità  

«Ho investito tutto nella dignità dell’essere umano. Se devo dire un segreto per la mia attività, parto da qui. Ho sempre pensato che l’essere umano che lavora in condizioni migliori è più creativo, geniale, ha un livello di responsabilità altissimo. Io vengo da una famiglia di contadini, ho visto mio padre soffrire quando ha lasciato i campi per lavorare in fabbrica, dove si sentiva umiliato, offeso. Non si lamentava dello stipendio, ma di come veniva trattato. E io mi sono detto – avrò avuto 15 o 16 anni – che quello che avrei fatto nella vita, l’avrei realizzato rispettando l’essere umano. Il premio dato a Natale ai dipendenti è un segno di ringraziamento per questi 34 anni insieme. Ma poiché siamo un’azienda quotata, è giusto spiegare che è stata un’elargizione fatta dalla mia famiglia, privata». 

 Regole  

«Nel costruire la mia impresa mi sono ispirato ad alcune regole. Si entra alle 8 e siamo tutti puntuali, ma nessuno lavora dopo le 18. E non è che io vado a casa e mi metto al computer. Anzi, se non devo uscire, magari resto davanti al fuoco a pensare. Nel mio lavoro ho preso a esempio la cultura di San Benedetto, laddove dice di essere rigoroso e dolce, esigente maestro e amabile padre. Dice anche “cura la mente con lo studio, l’anima con la preghiera e il lavoro”. Ecco, io credo che dobbiamo tornare a fare una vita più umana, in cui lavoro, studio e preghiera siano ben bilanciati». 

 Fascino  

«Stiamo continuando a crescere, sì, siamo un’azienda internazionale, esportiamo quasi l’80% dei nostri prodotti. Io, che sognavo di fare il monaco, oggi vivo quasi tre mesi l’anno all’estero, e vi assicuro che c’è un mondo intero, un nuovo mondo, che è affascinato dall’Italia, dai nostri manufatti, dalla nostra bellezza, cultura, unicità. Non esiste un solo cinese che non abbia il sogno di conoscere noi e i nostri prodotti. È ancora un valore essere un’azienda italiana, e poiché siamo sempre la seconda manifattura d’Europa e abbiamo industrie solide e competenze riconosciute, non ho dubbi che il nostro modello di business abbia un futuro». 

 Rinascimento  

«No, non esagero a dire che ci aspetta un secolo d’oro, una nuova primavera, un secondo Rinascimento. C’è un bel momento, intorno al 1535, quando i mercanti tornano dall’America e portano pomodoro, mais e patate e sconvolgono i sistemi di produzione europea. Mi sembra simile alla fase che viviamo oggi, no? Ci sono nuovi mondi che sono arrivati con i loro prodotti e stanno cambiando l’umanità, ma in questo progetto noi siamo al centro, perché per questi popoli noi siamo un punto di riferimento. Quindi è vero che nel breve periodo avremo ancora difficoltà, ci saranno problemi di disoccupazione, ma se guardo a lungo termine vedo che il meglio per il Paese deve ancora arrivare. Certo, dobbiamo essere rigorosi con noi stessi e capire se un’impresa deve cambiare strada rispetto al passato. Come ha detto il ministro Passera, non bisogna più vedere il fallimento di un’azienda come una vergogna, ma come un passaggio a volte necessario per intraprendere una nuova avventura». 

 Formula  

«Non creda che la formula d’impresa che ho realizzato valga solo perché ho un’azienda d’abbigliamento che lavora con il cashmere. Certo, se la nostra sede sorgesse in una zona industriale, avremmo un po’ meno fascino, perché il borgo medievale, il teatro, l’accademia, la biblioteca, beh…, contribuiscono a creare un ambiente particolare. Ma il modello è replicabile, nel mondo del lusso come nell’industria pesante, perché l’essere umano ha gli stessi sentimenti, dal Bangladesh a Perugia». 

 Coscienza  

«Negli ultimi due-tre mesi vedo emergere i segni di una nuova presa di coscienza umana, civile, morale nel nostro Paese. C’è una diversa consapevolezza della realtà e del futuro. Le racconto un episodio. Ogni due mesi facciamo un’assemblea con i dipendenti, analizziamo la situazione, discutiamo di strategie. Nell’ultima, ho detto ai ragazzi: mi raccomando, cerchiamo di essere molto speciali, di risparmiare qualcosa per un amico che ha perso il lavoro, ma continuiamo a credere che possiamo vivere un anno speciale. E ho visto molti con gli occhi lucidi, convinti che siamo ancora una nazione seria, con uomini seri, che non dobbiamo avere paura. Ho visto prima mio nonno, poi mio padre, soffrire la fame, patire la guerra e la dittatura. Come facciamo noi ad avere paura? Oggi vediamo il mondo cambiare, aprirsi, dobbiamo tornare a credere nei grandi ideali». 

 Artigiani  

«Fino a un paio di anni fa una giovane si vergognava di ammettere che faceva la sarta. Oggi non è più così. Sta cambiando la percezione. Io credo fermamente nella grandissima artigianalità italiana, nel valore di produrre tutto qui con artigiani che siano contemporanei, creativi, innovativi. C’è poi il discorso economico. Sapere di cominciare un lavoro per circa 1000 euro al mese, con la prospettiva di arrivare a 1250 dopo otto anni, ecco…, dobbiamo cambiare qualcosa. Un prodotto che esce da noi a 350 euro e arriva in negozio a 1000, ha diciamo 70 euro di manualità vera. Se noi ne diamo 90, non pregiudica nulla dell’attività, ma abbiamo trovato il modo di riconoscere qualcosa di più a persone che sono la nostra fonte di vita e la nostra cultura. Così nasce la decisione di retribuire i dipendenti con il 20% in più rispetto al contratto». 

 Umanesimo  

«No, non credo ci sia contraddizione tra parlare di morale ed etica nel lavoro e prodotti venduti a 1000 euro. Vorrei che mi dicessero che i nostri prodotti sono costosi, sì, ma non cari. Se sono costosi, si riconosce l’opera di chi li ha lavorati, se sono cari allora qualcuno ne ha approfittato. Vorrei che chi compra i nostri articoli sapesse che cerchiamo di fare un profitto sano, garbato, senza cercare di recar danni a nessuno. Sono convinto che stia nascendo una forma di capitalismo contemporaneo, che io chiamo umanistico, in cui le persone che lavorano con me sanno tutto di me, sanno come la penso e dove vado in vacanza, perché l’unico modo per essere credibili, oggi, è essere veri. Ripeto spesso che mi sento custode della mia azienda, con l’impegno di farla crescere e donarla a chi verrà dopo. È un principio che ho imparato da Marco Aurelio, “vivi come fosse l’ultimo giorno, progetta come se avessi davanti l’eternità”». 


Un commento su “L’impresa umanistica”

  1. Che bello aprire il 2013 con una simile lezione di vita e di imprenditoria! Grazie Antonio per averci segnalato questa testimonianza…

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