Tre libri innovativi per le vacanze

LibroIn partenza per le vacanze e con una scorta di libri da leggere (rigorosamente cartacei perchè la lettura digitale non la sopporto) mi sono chiesto: è possibile definire un libro innovativo?
La scrittura è certamente un’attività creativa e quindi ogni libro è un opera di ingegno. Quello che può essere “innovativo” è la maniera di porgere i concetti, la sintassi, la costruzione delle frasi, l’uso della punteggiatura, il linguaggio. Può essere innovativo anche  il soggetto, l’occuparsi ad esempio di un argomento a cui nessuno ha mai pensato.
Ho fatto quindi mente locale ai libri che ho letto e che presentano delle particolarità che seguono il criterio esposto precedente e mi sono venuti in mente tre titoli.

Il primo libro è Cecità di Josè Saramago. Perchè è un libro innovativo?
L’uso della punteggiatura è molto particolare: i dialoghi non sono introdotti dai due punti e non ci sono le virgolette a racchiudere le frasi che invece sono separate solo da una virgola, seguita da una parola che inizia con una lettera maiuscola ad indicare il cambio di voce. Sono completamente assenti i punti interrogativi. Il tutto sembra un flusso di coscienza e la lettura, faticosa all’inizio, diventa più agevole man mano che ci si abitua. La trama è angosciante, claustrofobica e unisce al miglior romanzo dell’orrore lo spessore di considerazioni sulle miserie di un’umanità che se, oltre la vista, perde il senso di solidarietà, precipita verso l’abisso. Qui di seguito un passaggio significativo:

Il cieco gridò, Tutti calmi e zitti, se qualcuno si azzarda ad alzare la voce, faccio fuoco, chi capita capita, poi non vi lamentate. I ciechi non si mossero. Quello della pistola continuò, E’ detto e non si torna indietro, da oggi in poi saremo noi a gestire il cibo, siete tutti avvisati, e che a nessuno venga in mente di andarlo a cercare fuori, metteremo dei sorveglianti a questo ingresso, subirete le conseguenze di qualsiasi tentativo di contravvenire agli ordini, adesso il cibo si vende, chi vuol mangiare paga (…) Ogni camerata nominerà due responsabili, questi saranno incaricati di raccogliere le cose di valore, tutte, di qualsiasi tipo, soldi, gioielli, anelli, bracciali, orecchini, orologi, quello che avete, e porteranno tutto nella terza camerata del lato sinistro, cioè dove siamo noi, (…)
Trascorsa una settimana, i ciechi malvagi mandarono a dire che volevano donne. Così, semplicemente, Portateci delle donne. Questa inattesa ancorché non del tutto insolita pretesa causò l’indignazione che è facile immaginare, (…) Se non ci portate delle donne, non mangiate. Umiliati, gli emissari ritornarono nella camerata con l’ordine, O ci andate, o non ci danno da mangiare. Le donne sole, quelle che non avevano un compagno, o per lo meno non lo avevano fisso, protestarono immediatamente, non erano disposte a pagare il cibo degli uomini altrui con quello che avevano tra le gambe, una ebbe persino l’audacia di dire, dimenticando il rispetto dovuto al proprio sesso, Io sono padronissima di andarci, ma quanto guadagno è per me, e se mi va ci resto pure a vivere, così mi garantisco letto e piatto.

Il secondo libro è La strada di Cormac Mc Carty. Perchè è un libro innovativo?
Ha u
no stile di scrittura asciutto, essenziale, con dialoghi che si mescolano nella prosa della narrazione, che ben si sposa con una storia cruda e apocalittica. La caratterizzazione dei personaggi, credibili nel loro muoversi in una situazione limite. La trama, che si svolge lungo il cammino dei due protagonisti verso una meta di cui non si conosce nulla (se potrà accoglierli, salvarli, …) ma è l’unica cosa che hanno oltre all’affetto che li lega. La descrizione delle situazioni, che ti fa percepire il freddo, l’inedia, la scarsità di luce, l’odore nauseabondo di una umanità ridotta a mangiarsi l’un l’altro per sopravvivere in un mondo bruciato e coperto di cenere, dove flora e fauna sono estinti da anni.  Ricorda a tratti L’ombra dello scorpione, il capolavoro di Stephen King, per il tema della fine del mondo, il dualismo tra bene e male, l’introspezione dell’animo umano. Ma si discosta da questo per il suo stile unico, molto lontano dalla verbosità a volte eccessiva di King, dimostrando di essere ugualmente efficace nel riportare l’orrore o la tenerezza tra due persone che si vogliono bene. Qui di seguito un passaggio:

Attraversarono la città a mezzogiorno dell’indomani.
L’uomo aveva la pistola a portata di mano, sopra il telo di plastica piegato in cima al carrello. Si teneva il bambino stretto al fianco. La città era quasi completamente bruciata. Nessun segno di vita. Per le strade automobili incrostate di cenere, ogni cosa coperta da cenere e polvere. Impronte fossili nel fango secco. In un androne un cadavere ridotto a cuoio. Con una smorfia di scherno rivolta al giorno. Si strinse ancora di più al bambino. Ricordati che le cose che ti entrano in testa poi ci restano per sempre, gli disse. Forse dovresti rifletterci. Però certe cose uno se le dimentica, no? Sì. Ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare.
A un paio di chilometri di distanza dalla fattoria di suo zio c’era un lago dove in autunno lui e lo zio andavano sempre a fare legna. Lui si metteva seduto a poppa della barchetta con una mano abbandonata nella scia fredda, mentre lo zio si piegava sui remi. I piedi del vecchio dentro le scarpe nere da ragazzino puntate contro i montanti. Il suo cappello di paglia. La pipa di pannocchia che teneva fra i denti e un filino di saliva che colava dal fornello. Lo zio si voltò per dare un’ occhiata alla sponda opposta, tenendosi in grembo le impugnature dei remi e togliendosi la pipa di bocca per asciugarsi il mento con il dorso della mano. La sponda era costeggiata da betulle che si stagliavano pallide come ossa contro il colore scuro dei sempreverdi alle loro spalle. La riva del lago era un conglomerato di ceppi ritorti, grigi e slavati, residui lasciati da un uragano anni prima. Gli alberi invece erano stati segati e portati via da un pezzo per farne legna da ardere. Lo zio girò la barca e tirò dentro i remi e si lasciarono trasportare dalla corrente verso le secche, finché la poppa non sfregò sulla sabbia. Un pesce persico morto fluttuava a pancia in su nell’acqua limpida. Foglie ingiallite. Lasciarono le scarpe sulle tiepide assi dipinte, trascinarono la barca sulla spiaggia e gettarono l’ancora. Un barattolo di strutto riempito di cemento con un anello di ferro piantato nel mezzo. Camminarono lungo la riva e lo zio esaminava i ceppi tirando boccate di fumo, una corda di canapa arrotolata in spalla. Ne scelse uno e lo fecero rotolare appoggiandosi alle radici finché non prese a galleggiare nell’acqua. Nonostante i calzoni arrotolati alle ginocchia si bagnarono lo stesso. Legarono la corda a un gancio sulla parte posteriore della barca e riattraversarono il lago con il ceppo che li seguiva lentamente, a scossoni. Ormai si era fatta sera. Solo il lento e regolare cigolio strascicato degli scalmi. Lo specchio scuro del lago e le finestre che si illuminavano lungo la riva. Da qualche parte una radio. Nessuno dei due aveva aperto bocca. Quella era stata la giornata ideale della sua infanzia. La giornata su cui modellare tutte le giornate a venire.

Il terzo libro è Canale Mussolini di Antonio Pennacchi. Perchè è un libro innovativo?
Perchè secondo me ha tre grandi meriti.
Il primo, fondamentale, è quello di raccontare tramite la saga di una famiglia uno specifico importante evento (la bonifica delle paludi dell’agropontino) e con questo la storia d’Italia e del fascismo dagli anni venti ai quaranta. A scuola non si studia (esperienza personale) o si studia male e la mia generazione e quella successiva rischia di perdere un pezzo insostituibile di conoscenza che è utile anche come chiave di interpretazione del presente soprattutto nei momenti in cui, come dice Pennacchi, “cambia il vento”.
Il secondo è il modo originale, coinvolgente, ironico con cui le vicende sono narrate. Merito anche del linguaggio che alterna un italiano volutamente semplice, da persona che lavora la terra, al dialetto veneto.
Il terzo è quello di aver creato personaggi memorabili, dagli improbabili nomi di battesimo (Pericle, Armida, Temistocle, Adelchi,…), caratterizzati magnificamente e che, anche se immaginari, si intersecano alla perfezione con personaggi storici esistiti e fatti realmente avvenuti.
Come marmo levigato che poco per volta inizia a mostrare crepe sempre più grandi, quella che all’inizio sembra un’agiografia del fascismo si evolve nel corso del libro in una critica che culmina con la descrizione delle nefandezze commesse in Africa. Il tutto rimane in un sottofondo smorzato nei toni a volte comici del libro ed è coerente con il punto di vista dei protagonisti che, come la maggioranza degli italiani, era rimasta affascinata dai vantaggi efficacemente propagandati dal regime totalitario. Interessante, infine, anche la chiave di lettura che Pennachi dà della nascita del fascismo, delle sue adiacenze e diversità dal socialismo, delle cause degli attriti tra le due ideologie e di come una ha prevalso sull’altra e ha attecchito in un Italia scossa dalla prima guerra mondiale.

Noi però oramai stavamo col fascio di Ferrara, dipendevamo da lì. E a Ferrara comandava Italo Balbo. Il Rossoni invece stava a Milano a dirigere i sindacati fascisti e con il Balbo non si è mai potuto pigliare. Il Balbo era uno che, dove c’era lui, doveva comandare tutto lui. Anche al Mussolini – fino all’ultimo – gli ha sempre detto: «Tu comandi su tutto e io obbedisco. Ma nel poco che mi dai da comandare a me, ci comando solo io e neanche tu ci metti bocca». E difatti anche col Mussolini – pure dopo che è diventato Duce – non è che ci si sia mai tanto preso. Il Duce alla fine non lo poteva proprio più vedere, perché era l’unico che anche in Gran Consiglio continuava a dargli del tu. A quello gli rodeva. Gli sembrava che non rispettasse il grado e lo ha mandato in Libia: «Va a fare il Governatore là, fora dai piè». Anzi, si dice che – ma i miei zii non ci credevano e neanche io ci credo – fosse stato lui a dare l’ordine alla contraerea di sparare, altro che sbaglio, quella volta che Balbo tornava da un volo sull’Egitto. Era appena scoppiata la Seconda guerra mondiale e dalla San Giorgio – una nave da battaglia che era stata interrata apposta, per proteggere meglio la piazzaforte di Tobruk – vedendo questo apparecchio che arrivava, si sono creduti che era un apparecchio inglese e allora via tutti a sparare Fino a che non lo hanno preso ed è caduto giù. E subito i marinai a tirare i berretti in aria per la contentezza: «O ghémo ciapà, o ghémo ciapà», perché pare che poi la San Giorgio non ne abbia più preso uno solo di apparecchio nemico. Né prima né dopo. Tutti passavano e non gli succedeva niente – l’antitriangolo delle Bermude – e s’era sparsa la voce tra i piloti britannici: «Passiamo sulla San Giorgio che lì non ci prendono neanche se viene giù Cristo». Solo quello hanno preso d’apparecchio in vita loro. E non gli pareva vero. Poi però, quando sono andati a vedere, era il Balbo; avevano buttato giù lui, i lo ghéva copà.

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